Giri frontali e disturbo post-traumatico da stress (PTSD)

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 13 marzo 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), con la sua grave e persistente sintomatologia, costituisce ancora un notevole problema per la terapia psichiatrica, e dunque i progressi nella conoscenza di ogni suo aspetto sono seguiti con interesse sia in ambito sperimentale che clinico. Un fatto accertato e confermato anche dagli studi condotti dal nostro presidente è che, a parità di stress, anche sperimentato nella stessa circostanza, come accade per terremoti, tsunami, uragani, disastri aerei, sciagure ferroviarie, atrocità di guerra e così via, solo una parte delle persone sviluppa la sindrome. Anche se l’entità oggettiva dell’evento traumatico è importante, come sostenuto da Lawrence Kolb quando il disturbo era ancora definito reazione a un grosso stress, non è da sola sufficiente a determinare il quadro caratteristico. Non si tratta di una semplice vulnerabilità, perché si possono avere altri tipi di reazione molto gravi ma con manifestazioni cliniche differenti; si tratta piuttosto di una specifica predisposizione a quella costellazione di segni, molto probabilmente consistente in un endofenotipo identificabile.

Nel 1980, subito dopo l’inclusione della diagnosi di PTSD nel DSM (III edizione) molti psichiatri americani sostennero la tesi dello splitting, cioè che fosse più opportuno creare tante categorie nosografiche per quanti traumi si conoscevano: sindrome del Vietnam, sindrome post-stupro, sindrome da disastro aereo, sindrome abuso sessuale infantile, ecc., Nancy Andreasen in seno all’APA ebbe un ruolo decisivo nell’opporsi alla frammentazione del PTSD[1]. La conservazione dell’unità diagnostica si è rivelata di estrema utilità per la definizione di un profilo di risposta legato a una tipologia neurofunzionale e per indagare il danno protratto o permanente causato al cervello dallo stress[2].

Avideh Gharehgazlou e colleghi hanno studiato la girificazione della corteccia cerebrale mediante MRI di pazienti affetti da PTSD e l’hanno posta in relazione con quella di volontari non affetti dal disturbo e hanno verificato il rapporto fra la gravità della sindrome e i reperti morfologici.

(Gharehgazlou A., et al. Cortical gyrification morphology in PTSD: A neurobiological risk factor for severity? Neurobiology of Stress 14, May 2021 – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.ynstr.2021.100299, 2021).

La provenienza degli autori è la seguente: Neuroscience & Mental Health, The Hospital for Sick Children (SickKids), Research Institute, Toronto, Ontario (Canada); Institute for Medical Science, Faculty of Medicine, University of Toronto, Toronto, Ontario (Canada); Bloorview Research Institute, Holland Bloorview Kids Rehabilitation Hospital, Toronto, Ontario (Canada); Operational Stress Injury Clinic, St. Joseph’s Health Care, London, Ontario (Canada); Department of Psychiatry and Behavioral Neurosciences McMaster University, Hamilton, Ontario (Canada); Department of Psychiatry, Western University, London, Ontario (Canada); Canadian Forces Health Services Group HQ, Department of National Defence, Ottawa, Ontario (Canada); Department of Medical Imaging, University of Toronto, Toronto, Ontario (Canada):

Un’introduzione sulle principali tappe dello studio dei disturbi da stress può essere utile per comprendere, alla luce dell’importanza del campo di studi, il rilievo che può assumere un’indagine morfologica sulla corteccia cerebrale sia pure di portata limitata come quella del lavoro qui recensito.

È opportuno ricordare che le tappe della ricerca sulle basi della risposta dell’organismo allo stress è parte integrante della storia della fisiologia, e che le nozioni e i concetti fondamentali emersi da questi studi costituiscono ancora la struttura portante della logica con la quale ci rapportiamo a temi e problemi dell’equilibrio dinamico dell’organismo nel suo ambiente.

Il fisiologo americano Walter Cannon introdusse per la prima volta il concetto di stress biologico in una trattazione scientifica nella seconda decade del Novecento, per indicare l’azione di fattori, eventi o condizioni in grado di superare le capacità dei meccanismi omeostatici, rompendo l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per conservare la temperatura corporea e i livelli ematici di glucosio entro l’intervallo di valori fisiologici[3]. Cannon studiò la risposta dell’organismo allo stress, quale reazione integrata ed aspecifica in condizioni di emergenza, e la identificò con il processo alla base del comportamento animale istintivo noto come fight or flight reaction[4], descrivendo la redistribuzione del flusso ematico che avviene in questo stato: la riduzione nei distretti cutaneo e splancnico, contrapposta all’aumento della portata a cuore, cervello, organi di senso, polmoni e grandi muscoli, a supporto dell’assetto fisiologico che consente all’animale di reagire efficacemente ad una minaccia per la vita. Perrella nota, in proposito, come la comparsa nella filogenesi del sistema nervoso “abbia consentito a singoli individui di una specie di rispondere individualmente ed immediatamente ad una minaccia per l’incolumità, scegliendo se eliminare l’origine individuata con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza, fuggendo”[5].

Il fisiologo americano “rimuoveva la corteccia cerebrale nel gatto e ne studiava le conseguenze in termini di fisiologia sistemica e di comportamento dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento delle reazioni di paura a situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente nuove, accompagnate da attivazione adrenergica, con aumento della pressione sanguigna, sudorazione, piloerezione ed aumentata secrezione di adrenalina surrenalica. Definì questa reazione “sham rage” – di solito tradotta nei testi di fisiologia italiani con “rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto definirla “rabbia artificiale” in quanto conseguenza di asportazione della corteccia cerebrale – e propose l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra il Mesencefalo fossero implicate nella genesi delle emozioni; in particolare indicò l’Ipotalamo, il Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[6].

“Nel corso dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe anche modo di testare l’effetto di stimoli psichici in grado di evocare risposte affettivo-emotive nell’animale. I risultati di questa ricerca gli consentirono di dimostrare, per primo, che diverse condizioni agenti direttamente sulla psiche dell’animale, senza il condizionamento del dolore fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano un’identica reazione simpato-adreno-midollare. Questa osservazione cruciale lo condusse alla formulazione di un principio, purtroppo spesso trascurato nei decenni successivi[7]: “al pari di una omeostasi organica esiste una omeostasi psichica la cui perturbazione provoca le stesse modificazioni periferiche che si osservano quando l’organismo viene sottoposto a stress di natura fisica”[8].

Dieci anni dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez ipotizza un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con punto di partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del lobo limbico, ossia il Circuito di Papez[9]. Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci appare ingenua e infondata. In quello stesso periodo, Kluver e Bucy stabilirono un rapporto tra memoria ed emozioni asportando nelle scimmie parti estese del lobo temporale. Queste scimmie sembravano prive di paura e risposte emozionali, ma non riconoscevano più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[10].

Nel decennio successivo, McLean, sintetizzando gli studi di Papez e quelli di Kluver e Bucy, denominò cervello viscerale il rinencefalo dei mammiferi inferiori; ma, soprattutto, introdusse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione sistematica del cervello emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni la definizione di lobo limbico[11].

Il medico ungherese Hans Selye, considerato dai ricercatori del suo tempo il massimo esperto di effetti dello stress sull’organismo, pubblicò i primi risultati delle sue ricerche nel 1936 sulla rivista Nature: definì la risposta dell’intero organismo a fattori o condizioni stressanti sindrome generale di adattamento, sottolineando la partecipazione globale ad un assetto fisiologico dal significato di difesa efficace ad adattare l’animale a circostanze minacciose, estreme o traumatiche. In questa “sindrome” Selye distingue una iniziale reazione di allarme da una fase di resistenza successiva. Il contributo più importante del ricercatore ungherese consiste nella scoperta dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la produzione di glucocorticoidi (cortisolo nella specie umana) per azione dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo. Comprendendo le potenzialità patogene dell’attivazione protratta di questa via neuroendocrina, inizialmente attivata a fini adattativi, Selye considerò “malattie dell’adattamento” la maggior parte dei disturbi psichici e psicosomatici.

È opportuno rilevare che “Selye conferisce al termine stress un nuovo valore semantico, definendolo come la somma di tutte le modificazioni indotte da ogni impegno fisico o psicologico in grado di provocare la sindrome generale di adattamento[12]. Quindi, mentre Cannon identificava lo stress con gli agenti stressanti (stressors), per Selye lo stress era costituito dalla risposta che questi inducono nell’organismo e, in ultima analisi, dalla stessa sindrome di adattamento. In estrema sintesi, si può dire che a Cannon dobbiamo la scoperta dell’attivazione del sistema simpato-adreno-midollare e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene[13].

Tutti gli studi successivi hanno preso le mosse dalla base fisiologica individuata da Cannon e Selye.

La concezione attuale è stata così esposta in sintesi: “Oggi definiamo lo stress come uno stato di disarmonia o di alterata omeostasi che può essere provocato da vari fattori di natura fisica e/o psichica (agenti stressanti o stressors) e al quale l’organismo reagisce specificamente attivando una serie di meccanismi fisiologici di natura neuroendocrina (sistema dello stress) che innescano e/o modulano una serie di funzioni fisiche e comportamentali (risposte adattative), aventi lo scopo di adattare l’organismo alla nuova condizione e di ripristinare l’omeostasi iniziale”[14].

Fra i meccanismi di sistema ritenuti responsabili della patogenesi dei sintomi del PTSD, quale esito patologico di stati protratti di alterata omeostasi, vi è quello che implica l’intervento del locus coeruleus. In sintesi: eventi stressanti o minacciosi, riconosciuti ed elaborati dalla corteccia cerebrale, raggiungono l’amigdala, che può essere attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati inconsciamente; l’amigdala rilascia il CRH che attiva la produzione simpatico-midollare di adrenalina e stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando l’organismo alla fuga o all’attacco. Se lo stress perdura o è molto intenso, il cortisolo attiva il locus coeruleus che, mediante la noradrenalina, stimola l’amigdala a produrre CRH, innescando il circolo vizioso ritenuto responsabile della patogenesi[15].

Dopo aver ripercorso le tappe salienti della ricerca sulla fisiologia della risposta allo stress, è interessante considerare, sia pure in estrema sintesi, l’evoluzione della concezione in medicina e in psichiatria della patologia da stress.

Nel 1871, durante la guerra civile americana, Da Costa descrisse in soldati esposti allo stress del combattimento una sindrome caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Il medico americano studiò le manifestazioni cardiovascolari, consistenti nell’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, rendendosi conto dell’origine non cardiologica di questi segni[16]. Da Costa definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore irritabile del soldato) e lo considerò parte di una sindrome di attivazione dell’intero organismo, alla cui origine riconobbe lo stato psichico determinato da paura e tensione estreme[17]. Si tratta della prima formulazione nosografica di un disturbo da stress, denominato con l’eponimo Da Costa’s Syndrome[18].

Kraepelin, pioniere della nosografia psichiatrica, descrisse una sindrome da trauma psichico con il nome di schreckneurose, reso in inglese con fright neurosis, letteralmente “nevrosi da spavento”[19]. Freud, la cui elaborazione teorica degli effetti delle esperienze traumatiche esulerebbe dai limiti di questa sintesi, consultato nel 1915 circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia causate dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, propose la diagnosi di Kriegneurose, ossia “nevrosi di guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero sintomi psichici causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come disturbi della memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del proprio nome sul campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi appena accaduti, fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori intrattabili ed ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a quelli dell’isteria di conversione della nosografia dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità temporanee[20]. In assenza di fattori eziologici cerebrali riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni cliniche, i fautori di una visione neurologistica conclusero che il cervello subisse danni concussivi dalle esplosioni ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi. Per questo tali sindromi furono denominate Shell Shock o Shock da bombardamento (to shell = bombardare). Nello stesso periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme o eventi traumatici fossero in grado di determinare una scissione della coscienza tale che la vita mentale potesse avere due processi paralleli operanti fianco a fianco, ciascuno dei quali poteva essere o meno consapevole dell’altro. Lo psichiatra francese osservò pazienti che presentavano sintomi quali vedere “come se fossero in un tunnel” o senza colore, che avevano pause psichiche o si sentivano come se fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che oggi descriveremmo come dissociazione da stress[21]. Ricordiamo che Janet fornì la prima teoria della dissociazione, secondo una patogenesi perfettamente coerente con le più avanzate conoscenze di neurofisiologia dell’epoca.

Lo studio delle nevrosi di guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma analizza anche il perdurare dei sintomi, spesso considerato un effetto di affaticamento del sistema nervoso. Infatti, Mott ed altri introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue o affaticamento da combattimento[22].

Kardiner e Spiegel (1930-38) interpretano i disturbi presentati a distanza di tempo dai veterani della I Guerra Mondiale come il “perdurare della rottura delle funzioni egoiche”[23] espresse in una psiconevrosi, negando di fatto l’esistenza di patologia cronica da stress. Sargent e Slater (1941) studiano le sindromi amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia psicosomatica da stress. Nel 1945 Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto la definizione di Combat Neuroses, pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici: Men Under Stress[24]. La focalizzazione sull’eccesso di adrenalina all’origine di segni e sintomi porta gli autori a suggerire nei casi più gravi la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenaliche.

La prima descrizione esaustiva di sindrome da stress cronico si attribuisce ad Eitinger che, in uno studio condotto dal 1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, definisce la Concentration Camp Syndrome[25].

Le difficoltà nello sviluppo di una nosografia di riferimento per la diagnosi dei disturbi da stress in assenza di precisi elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM) che, nella prima edizione del 1952, includeva la gross stress reaction – probabilmente sotto l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre nella seconda edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le problematiche legate alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di attualità con lo studio dei reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle response, consistente nel sussultare per comuni suoni e rumori ambientali, e la attribuì agli elevati tassi di noradrenalina presenti nei reduci afflitti da una sintomatologia cronica. In questo periodo sono state elaborate le principali teorie dello stress: la residual stress theory, la stress sensitization theory e la stress inoculation theory.

Nel suo influente lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che lo stress della guerra fosse in grado di determinare psicopatologia da stress virtualmente in ogni persona esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[26]. In questa temperie psicopatologica, nel 1980 si introdusse nel DSM III il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.

Nei primi anni la diagnosi era posta raramente, anche per la definizione di trauma inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là del normale spettro dell’esperienza umana”. Nelle versioni successive si corregge questo limite: “Evento con minaccia per la vita od altro (evento) significativo accompagnato da estrema paura, orrore o sconforto”[27].

Una parte considerevole delle conoscenze cliniche ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi possiamo disporre si devono agli studi di Richard Mollica, tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, e dei gruppi di psichiatri che fanno capo alla sua scuola. Fondamentale il contributo derivato dallo studio nel più grande campo di rifugiati cambogiani nel 1988.

Nel 1994 fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute Stress Disorder (ASD) che, a differenza del PTSD, prevede una durata della sindrome inferiore a un mese.

Il riferimento nosografico ha facilitato lo studio degli effetti sull’encefalo dello stato di attivazione da stress di lungo periodo nella nostra specie, con il lavoro di Bremner e colleghi che ha inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante risonanza magnetica nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano confrontò un gruppo di veterani affetti da PTSD con un gruppo di controllo equivalente, rilevando che le persone affette dal disturbo presentavano in media un volume dell’ippocampo di destra inferiore dell’8%, con un deficit di memoria direttamente proporzionale alla perdita di tessuto nervoso ippocampale. Lo studio, condotto nel 1995, documentò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano[28].

Lo studio morfologico mediante risonanza magnetica in questi ultimi vent’anni ha cercato di stabilire se alcune differenze volumetriche – soprattutto quelle dell’ippocampo e della corteccia cerebrale – fossero conseguenze del danno da stress o fossero preesistenti, costituendo addirittura dei segni distintivi di una predisposizione e, dunque, espressione dell’endofenotipo. Non si dispone ancora di dati conclusivi, ma nella maggior parte degli studi in cui si è cercato di determinare se vi fosse un volume minore prima dell’esposizione a stress cronico si è avuta una conferma della riduzione volumetrica da stress[29].

Torniamo ora allo studio di Avideh Gharehgazlou e colleghi.

La girificazione corticale costituisce, quale specifica misura derivata dall’indagine morfologica strutturale mediante risonanza magnetica nucleare (MNR o MRI, da magnetic resonance imaging), un indice del ripiegamento convoluto della struttura e dell’organizzazione in pattern dei giri e dei solchi, e si pensa che faciliti localmente le connessioni funzionali dei neuroni. La girificazione corticale si ritiene che possa fungere da parametro per la stima di un fattore di rischio neurobiologico per lo sviluppo di numerosi disturbi psichiatrici; tuttavia, fino ad oggi, non è stato compiuto uno studio sistematico ed analitico di questo parametro morfologico corticale in rapporto al disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

Avideh Gharehgazlou e colleghi hanno impiegato un indice di misura locale del grado di sviluppo delle circonvoluzioni della corteccia cerebrale, ossia il local Gyrification Index (lGI), per indagare la morfologia a scopo differenziale in adulti affetti da PTSD e volontari con caratteristiche corrispondenti ma privi di malattie neurologiche e disturbi psichiatrici.

Per i motivi che abbiamo ricordato più sopra, i soggetti per l’esperimento sono stati reclutati fra militari di sesso maschile, costituenti un campione di 48 unità: 23 affetti da PTSD e diagnosticati secondo i criteri internazionali correnti e 25 perfettamente sani, fungenti da gruppo di controllo. Il protocollo prevedeva nel gruppo di pazienti PTSD, oltre la definizione morfologica quantitativa e qualitativa della corteccia cerebrale, la valutazione del rapporto fra dato dell’lGI e gravità della sindrome seguente a un’esperienza di stress traumatica.

I modelli lineari generali hanno rilevato significative differenze tra i due gruppi con un maggiore lGI reperito nei cervelli dei pazienti affetti da PTSD in un blocco localizzato nel lobo occipito-parietale mediale dell’emisfero sinistro e ridotto lGI in un blocco localizzato sulla superficie laterale del lobo parietale dell’emisfero destro.

L’analisi del rapporto cervello-comportamento all’interno del gruppo affetto da PTSD ha evidenziato significative associazioni positive tra lGI e gravità della sindrome PTSD in un blocco di giri localizzato nella corteccia del lobo frontale dell’emisfero sinistro e insiemi distribuiti, posti all’interno di tutti i lobi dell’emisfero destro.

Dopo aver considerato gli effetti dei sintomi psichiatrici di disturbi concomitanti al PTSD, le associazioni dell’emisfero destro si riducevano a blocchi localizzati esclusivamente nel lobo frontale, mentre l’insieme dell’emisfero sinistro rimaneva significativo.

I risultati dello studio suggeriscono che la girificazione corticale atipica nelle regioni parietale e occipitale possa essere implicata nella psicopatologia del PTSD, impiegata nella diagnostica e rapportata alla gravità delle manifestazioni cliniche della sindrome.

L’importanza di queste regioni per il PTSD può essere attribuita al pre-esistente fattore di rischio neurobiologico, o ad alterazioni neuro-morfologiche dopo il trauma, precipitanti il disturbo psichiatrico emergente.

L’analisi del rapporto fra cervello e comportamento, condotta dai ricercatori, fornisce supporto alle tesi derivate dagli studi precedenti, evidenziando l’importanza del lobo frontale nella patogenesi del PTSD. Si spera che si possano realizzare studi di vasta scala, che includano campioni significativi di sesso femminile e che consentano di accertare con precisione un nesso di causalità fra la girificazione atipica e lo sviluppo del PTSD.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-13 marzo 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Nancy Andreasen, Posttraumatic stress disorder. In Kaplan & Sadock (editors) Comprehensive textbook of psychiatry. Vol. IV, pp.918-924, Williams & Wilkins, Baltimore 1985.

[2] G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.

[3] I cenni storici e le nozioni sulla fisiologia dello stress esposti da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.

[4] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga” (lett.: lotta o fuga).

[5] G. Perrella, op. cit., p. 4.

[6] G. Perrella, op. cit., p. 5. Cfr. W. B. Cannon, The James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal and an alternative theory. American Journal of Psychology 39, 106-124, 1927.

[7] Mai completamente assimilato nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere soggettivo (illness) che accompagna le malattie psicogene a quello della patologia ad etiologia organica.

[8] G. Perrella, op. cit., p. 6. La citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.

[9] J. W. Papez, A proposed mechanism of emotion. American Medical Association Archives of Neurology and Psychiatry 38,725-743, 1937.

[10] H. Kluver & P. C. Bucy, “Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy in rhesus monkeys. American Journal of Psychiatry 119, 352-353, 1937. Cit. in G. Perrella, op. cit., p. 8.

[11] P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent developments bearing on the Papez Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.

[12] Cfr. A. Calogero e M. C. Serra, op. cit., p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the diseases adaptation. Journal of Clinical Endocrinology 6, 117-196, 1946.

[13] G. Perrella, op. cit., p. 11.  

[14] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si descrivono una risposta centrale ed una periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento della vigilanza nello stato di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e proprio, con accentuazione dell’attenzione scopica, perlustrativa ed esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva con eretismo estesico; inoltre, si ha un miglioramento della memoria impressiva. La risposta periferica include le modificazioni fisiologiche neurovegetative che interessano i sistemi endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio, gastroenterico, tegumentale, con le azioni visceroeffettrici ghiandolari, incluse quelle interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione adrenergica).

[15] Ricordato anche nella nostra rubrica “Alfabeta” e citato in numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus rivisitato in “Note e Notizie” del 9 aprile 2016.

[16] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp. 13-14.

[17] J. M. Da Costa, On irritable heart: A clinical study of a form of functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.

[18] J. D. Bremner, Does Stress Damage The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.

[19] G. Perrella, op. cit., p.14.

[20] G. Perrella, op. cit., p.15.

 

[21] G. Perrella, op. cit., p.17.

 

[22] F. W. Mott, War Neuroses and Shell Shock. Oxford University Press, London 1919.

[23] Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria Clinica, p. 704, Idelson, Napoli 1979.

[24] Grinkel R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.

[25] G. Perrella, op. cit., p.19.

[26] Charles Figley cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.

[27] G. Perrella, op. cit., p.28.

[28] Note e Notizie 15-09-18 Difetti di circuito nel disturbo post-traumatico da stress.

[29] Per uno studio recente sulle basi dei disturbi d’ansia, si veda: Note e Notizie 27-06-20 Scoperte sulle basi delle reazioni ansiose.